I risultati di uno studio gettano nuove speranze per la terapia di una particolare forma di leucemia, la leucemia linfoblastica a Philadelphia +, con l’uso di farmaci bloccanti di proteine importanti per il tumore. Vediamo insieme di cosa si tratta.
In questo articolo parliamo di:
Che cos’è la leucemia linfoblastica?
La leucemia acuta linfoblastica (LAL) è un tumore aggressivo del sangue che è caratterizzato da una proliferazione incontrollata di cellule del sangue immature.
Tra le diverse categorie di LAL troviamo la variante Philadelphia-positiva (Ph+ LAL) che rappresenta una condizione distinta dalle altre forme in quanto caratterizzata da una mutazione genetica specifica chiamata “cromosoma Filadelfia”.
Questa modifica genetica coinvolge uno scambio di sequenze di DNA reciproco tra i cromosomi 9 e 22, che in genetica prende il nome di “traslocazione”. Questo fenomeno porta alla nascita di un gene noto come BCR-ABL1.
La formazione di questa sequenza aberrante dovuta alla fusione di segmenti di DNA al momento della traslocazione, è fondamentale nella patogenesi della LAL Ph+, e contribuisce in maniera significativa alla sua aggressività e alla resistenza alla chemioterapia convenzionale.
La presenza del cromosoma Filadelfia è considerata un fattore sfavorevole per quanto riguarda la prognosi della malattia, in quanto questa è correlata a una probabilità più elevata di recidive e una sopravvivenza ridotta.
Come avviene la diagnosi di leucemia linfoblastica?
Dopo la diagnosi di LAL, che avviene tramite analisi morfologica e lo studio dell’immunofenotipo, è necessario che si passi celermente a identificare se si tratti di una forma di Ph+. Per questo è necessario che sia effettuata l’analisi citogenetica che permette di osservare il cromosoma Philadelphia accanto ad altre alterazioni.
Il dato diagnostico viene poi approfondito da metodi di biologia molecolare in grado di identificare il sottotipo di proteina aberrante dovuto alla traslocazione 9-22
Nuove prospettive per la terapia della leucemia linfoblastica
All’interno di questo quadro particolarmente drammatico, negli ultimi anni gli avanzamenti portati avanti dagli studi di biologia molecolare sulla LAL Ph+ c’è la speranza di poter sviluppare terapie mirate rivolte in modo specifico alla lesione genetica responsabile della patologia.
Un recente studio ha valutato l’attività di alcuni composti, gli inibitori delle tirosin-chinasi, che potrebbero rivoluzionare la prognosi della LAL Ph+.
I pazienti vengono trattati in fase d’induzione con questa terapia mirata, associata a steroidi, senza chemioterapia. Questo tipo d’approccio ha mostrato tassi di remissione molto promettenti, un miglioramento della qualità di vita dei pazienti e anche pochi effetti collaterali.
Come funzionano gli inibitori delle tirosin-chinasi?
In particolare gli inibitori delle tirosin-chinasi come il dasatinib e il ponatinib, vanno a contrastare la proteina BCR-ABL1 che è espressa dal gene di fusione originatosi della traslocazione: utilizzando un inibitore delle tirosin-chinasi di seconda generazione (dasatinib) seguito da un anticorpo monoclonale bispecifico (blinatumomab), sono stati raggiunti tassi di remissione del 98% senza effetti collaterali significativi e senza chemioterapia sistemica.
Inoltre, il 50% dei pazienti ha evitato chemioterapia o trapianto, evidenziando i benefici di questa strategia domiciliare, persino durante la pandemia da Covid-19.
Un dato rilevante emerso dallo studio è l’importanza della risposta molecolare precoce nel prevedere l’esito del trattamento. I pazienti che hanno ottenuto una risposta molecolare completa hanno mostrato una sopravvivenza senza malattia del 100%, sottolineando l’efficacia di questa terapia nel mantenere la remissione a lungo termine.
Lo studio rappresenta un passo avanti notevole nella gestione della LAL Ph+ negli adulti, in grado di offrire nuove speranze ai pazienti e aprire un nuovo percorso nella terapia delle neoplasie ematologiche.
La combinazione di dasatinib e blinatumomab si attesta come una nuova strategia terapeutica efficace e con un alto potenziale per migliorare in modo significativo le prospettive di sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti.
Fonti
https://ascopubs.org/doi/10.1200/JCO.23.01075
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